A NEPD la scrittrice Daniela Foschi presenta Il bistrot del Dubal: viaggi, adolescenti arrabbiati e il coraggio di guardarsi davvero dentro.
C’è sempre un momento, nelle puntate di Non è più domenica, in cui la caciara iniziale lascia il posto a qualcosa di più serio senza che nessuno lo annunci. Con Daniela Foschi succede quando il libro entra letteralmente in inquadratura e lei, con la calma di chi ci è abituata a parlare a una classe intera, dice: “Allora, questo è il libro, io sono Daniela Foschi e il libro si chiama Il bistrot del Dubal. Questo è il mio secondo romanzo”.
Da lì in poi, il tono cambia. Il romanzo – racconta – “è nato un po’ come un esperimento, è nato un po’ per gioco”. Dopo il primo libro, Il cerchio di Ercole, una storia “piuttosto lunga nel tempo”, voleva capire se fosse capace di stringere l’orizzonte: “Ho voluto provare a vedere se ero capace di scrivere un libro che avesse un orizzonte temporale più ridotto, e infatti questo è il racconto di un’estate”.
In mezzo, ci sono due personaggi che non le sono caduti addosso per caso il giorno prima della consegna, ma che arrivano da lontano, da un corso di scrittura: “Avevo dei personaggi che erano nati in un corso di scrittura e a cui mi ero molto affezionata: questi sono Tizi e Alfonso. Avevo già una bozza di trama… e ho provato a metterli sulla scena”. La scena, nel suo caso, è la pagina, ma Daniela la vive quasi come fosse teatro o cinema: “Quando scrivo mi piace immaginare, guardarli, osservarli come si muovono, iniziare a conoscerli e poi la trama si definisce man mano che scrivo”.
Tizi, nel romanzo, «” una ragazzina arrabbiata col mondo, non le piace niente, le dà fastidio anche il suo stesso nome” e a un certo punto decide di fare “una sorta di fuga da casa” per intraprendere un viaggio verso un posto di cui ha solo sentito parlare. Ha sedici anni, nessun permesso firmato sul tavolo della cucina e parecchia rabbia nella pancia. Alfonso è l’opposto: “Un uomo sui 35 anni che le dà una bella impressione perché sembra inoffensivo, una persona molto tranquilla, anche un po’ impacciata”.
Nel podcast lo diciamo apertamente: per far crescere un personaggio come Tizi “è necessario che ci sia qualcuno alle antitesi, perché sennò non si arriva ad una sintesi”. Lei annuisce: “È proprio nel loro incontro-scontro continuo che si sviluppa la storia e che si scoprono le loro caratteristiche”. L’idea è semplice e funzionante: metti insieme una ragazzina che vuole sparire per ricomparire altrove e un adulto che non ha mai davvero rischiato; poi li fai viaggiare e vedi cosa succede.
Quando si tocca il tema dell’autobiografia, Daniela non scappa: “In Tizi sicuramente c’è qualcosa di autobiografico, perché anch’io ero una ragazzina molto arrabbiata… cercavo di capire dove volevo andare”. Ma loro due, i personaggi, non sono cloni: “La sua storia non è autobiografica, ma dei richiami ci sono. Invece Alfonso, devo dire la verità, di autobiografico no, ha poco: è proprio quel tipo di persona che io non sono stata e che non sono, ma che mi fa simpatia”.
La parte forse più interessante arriva quando le chiediamo come nascono i personaggi, davvero. Lei ha una formazione scientifica, insegna matematica: una biografia che non è esattamente la classica immagine dello scrittore bohemien. Eppure, parlando di creatività, usa parole che stanno all’opposto di qualsiasi schema rigido: “Per me la creatività è stata una scoperta da grande… Nel silenzio, uno ti dà una sfida: “trova tre personaggi” e tu ci pensi e arrivano. È una specie di magia”.
Il meccanismo del corso di scrittura era spietatamente semplice: “Il maestro diceva: “Bene, adesso cerchiamo dei personaggi, provate a immaginare tre personaggi” e poi ci lasciava lì da soli davanti al computer”. Lei, che nel podcast definisco “allergica al foglio bianco” per conto mio, sorride: “Questi personaggi arrivavano… non saprei dirti come. Pensando nel silenzio, forse. Non di tutti ti innamori, ma alcuni restano”. E alcuni, come Tizi e Alfonso, diventano un libro.
C’è anche lo spazio per la fantasia cinematografica. Matteo butta lì che “ci sono le basi per un prodotto che possa avere un’evoluzione altra, cioè un film, una serie TV”, e le chiede se lo vede più sul modello “ora e mezza” o “tanti episodi”. Lei non ha dubbi: “Io amo i film. Guardo anche le serie, ma come potenza comunicativa preferisco il film. Se dovessi immaginarlo, lo vedrei più come un film”. Sul cast, invece, ride: “Scherzando con la mia agente ce lo siamo chieste… non saprei rispondere. Forse la ragazzina potrebbe assomigliare un po’ a Kristen Stewart, arrabbiata”. Quando tiriamo fuori Natalie Portman in Léon, lei stessa si è posta il problema: “A un certo punto ho detto: “Oddio, ma assomiglia alla storia di Léon?”. Ma in realtà non c’entra niente: lui non è un criminale, anzi, è un bonaccione”.
Rimane, sullo sfondo, la questione del target. A chi parla davvero Il bistrot del Dubal? Foschi schiva l’idea del “romanzo a tesi”: “Quando scrivo un libro non mi rivolgo a nessuno. Non mi piace pensare di mettere un messaggio specifico, come se dovessi insegnare qualcosa a qualcuno. Io voglio raccontare una storia, poi ognuno ci trova quello che gli serve”. Però un’idea ce l’ha: “Diciamo che il target, nella mia mente, sono gli adulti. Anche se parla di ragazzi, può aiutare gli adulti a comprendere i ragazzi”.
Da insegnante e madre di due figli di 20 e 14 anni, la domanda è inevitabile: è davvero possibile capire i giovani? “Non credo sia possibile comprendere tutto”, risponde. “È possibile cercare di osservarli, di accoglierli, di litigarci, di stimolarli, di aiutarli. Forse non comprendiamo bene neanche noi stessi, non solo i giovani”. È una frase che sintetizza molto bene lo spirito del libro: un viaggio che è sempre doppio, fuori e dentro, e che non pretende di spiegare, ma di mostrare.
Alla fine della puntata resta la sensazione che Il bistrot del Dubal sia esattamente ciò che Daniela descrive: “Un libro lungo come pagine, ma leggero, che si legge velocemente”. Non perché sia superficiale, ma perché sa stare vicino ai suoi personaggi senza appesantirli. Due solitudini molto diverse – una adolescente, una adulta – che condividono un’estate e, forse, imparano a guardarsi meglio.
